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La direzione emotiva

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La direzione emotiva.

Ovvero il valore delle emozioni.

L’Homo Sapiens è pieno di emozioni, è un fatto biologico, determinato dal codice genetico, che lascia poi all’interazione tra individuo (maturazione dell’organismo) e ambiente (sollecitazioni del contesto) il come, quando e quanto tale fatto debba realizzarsi. Sin dalla nascita proviamo emozioni, chi più chi meno, e del resto la stessa nascita presuppone che due persone abbiano provato emozioni tra loro. Proviamo emozioni  sempre: quando diamo il peggio di noi, così da non sembrare più tanto Sapiens, quando diamo il meglio che possiamo, meritando appieno il titolo di Homo. 

Le emozioni ci orientano nel mare delle relazioni e degli incontri che viviamo ogni giorno per garantirci il benessere o addirittura la sopravvivenza, sia quando la vita in gioco è quella biologica, fatta di tessuti e funzioni da preservare, che quella psicologica, fatta di esperienze, ambizioni e rapporti umani da coltivare. In entrambi i casi le emozioni ci aiutano a reagire in fretta, per  facilitare la vita. Così come ingerendo un cibo ne avvertiamo il sapore e valutiamo in fretta la bontà o la pericolosità, proseguendo a masticarlo o sputandolo, allo stesso modo appena entriamo in relazione con qualcosa o qualcuno abbiano una reazione emotiva, ovvero avvertiamo il valore che ha per noi (positivo o negativo per la sopravvivenza) e quindi reagiamo intraprendendo spontaneamente la direzione idonea (avvicinarsi o allontanarsi). Dall’incrocio di  queste due dimensioni fondamentali, valutazione (positiva/negativa) e direzione (avvicinarsi/allontanarsi), emergono le quattro emozioni fondamentali, dalle quali scaturiscono nel corso dello sviluppo tutte le altre, così come dai pochi colori di base, mescolando bene emergono infinite tonalità e sfumature di colori. 

Piano cartesiano delle emozioni

Piano cartesiano delle emozioni

Se riteniamo un’esperienza positiva, se ci fa bene, allora spontaneamente tendiamo ad essa, che sia una persona, un oggetto o un pensiero, per goderne e prolungare l’incontro: questa è la gioia, che spinge a unirsi, condividere, facilitare la vita. Ma se per motivi vari  dobbiamo invece allontanarcene, separarci, terminare l’incontro con cosa o chi per noi è vitale, nutriente, ecco che la tristezza ce lo segnala in un attimo e per molto tempo ancora: è la perdita,  che sprona a proteggere e conservare ciò che è importante. Sia gioia che tristezza ci informano dunque sull’importanza positiva che una cosa, persona, pensiero o situazione ha per il nostro benessere, e facilitano l’apprendimento e la memorizzazione di tutto ciò.

Ma se invece qualcosa ci minaccia? Se qualcosa o qualcuno è pericoloso per l’idea cha abbiamo di noi stessi o per la nostra vita biologica, che fare? Beh se appare troppo forte rispetto alle nostre capacità, conviene scappare, evitare, allontanarsi per proteggersi, ed ecco che la paura, con la sua scarica di adrenalina ed il cuore che accelera ci aiuta a correre via veloci, fuggire per salvare la vita. Invece se riteniamo di poterlo affrontare e sconfiggere, allora la rabbia ci dona la forza e la determinazione per combattere e “annientare” la minaccia, affrontare per affermare la nostra visione delle cose o la nostra vita. Che sia quindi la tigre che ci vuole mangiare o la persona che ci crea problemi, la paura e la rabbia ci guidano nel gestire il pericolo e nel valutare cosa fare, e ci aiutano a ricordarlo bene per le future evenienze.

Ogni emozione quindi ci segnala in maniera intuitiva, pre-verbale e pre-riflessiva il valore che diamo all’esperienza in atto (cos’è, com’è, che fare), e lo comunica anche agli altri membri della specie, così che possano interagire meglio con noi, in base a quello che stiamo provando. Ogni emozione inoltre sollecita a catena nell’altro le sue reazioni emotive. Anzi, limitatamente a quella parte di mondo emotivo che condividiamo con le altre specie, lo segnala pure a quegli animali che possono decifrare le nostre reazioni emotive.  Le emozioni quindi comunicano agli altri, oltre che a noi stessi, chi siamo, come stiamo e la direzione che intraprendiamo.

Le emozioni si stratificano e creano una “storia” dentro di noi. Così come il nostro corredo genetico è infatti la sintesi di millenni di evoluzione, e quindi in una singola vita ne racchiude migliaia di migliaia di precedenti, allo stesso modo la reazione emotiva di un momento è la sintesi di tutte le esperienze emotive che abbiamo compiuto nella nostra personale esistenza e condensa in un attimo tutto ciò che abbiamo vissuto, agito o subito, tutto ciò che sappiamo, che abbiamo imparato e in cui crediamo.

In quale modo poi le emozioni prendono forma da persona a persona, come e se si sviluppano in maniera sana e adeguata, quanto sono visibili o meno, quanto si è in grado di riconoscerle e capirle, quanto di modularle ed usarle in maniera complessa e articolata… questo non è dovuto ai cromosomi (se non in rari casi) ma alla vita che viviamo e all’interazione con le persone che incontriamo, soprattutto nell’età dello sviluppo. Questa è la parte che il nostro codice genetico lascia decisamente all’ambiente, che per l’Homo Sapiens è sia fisico che sociale, è la vita vissuta, con le persone e le situazioni incontrate. Ma questa è un’altra questione, da approfondire altrove magari, é il discorso sullo sviluppo emotivo.

Per il momento ci basti sapere e ricordare che ogni volta che proviamo un’emozione rispetto a qualcuno o qualcosa fuori (eventi, persone, interazioni) o dentro  (pensieri, fantasie, sensazioni, ricordi, ecc.) di noi, gli stiamo attribuendo un determinato valore personale, soggettivo ed importante. Le emozioni ci immettono così nella direzione che spontaneamente sentiamo di assumere, e per questo motivo vanno ascoltate e comprese.

Se poi la direzione intrapresa spontaneamente sia o meno veramente la migliore per noi, in un dato momento, ovvero la più vantaggiosa, bisogna fare ricorso ad un’altra risorsa che l’evoluzione ci ha offerto, la capacità di ragionare, di analizzare e riflettere, anche sulle proprie emozioni, e valutare se inibirle, seguirle, aumentarle o “trasformarle”. Ma anche questo è un altro discorso, quello sul pensiero che da forza al nostro agire e sulla capacità di modulare le emozioni, invece che scaricarle in presa diretta.

Il sapere emotivo ha bisogno della ragione per funzionare meglio ed essere veramente al servizio della vita, così come il sapere razionale ha bisogno delle emozioni per essere concreto, restare umano e condurre alla soddisfazione dei nostri bisogni e aspirazioni.

Per concludere con un motto che ci riporti, così come in apertura, alla nostra appartenenza di specie, potremmo dire che la parte Sapiens del nostro essere Homo è molto più emotiva, quindi, di quel che comunemente riteniamo.

 

La Rabbia (Video – La Rabbia e  Articolo)

La Tristezza

La Paura

La Gioia

L’emergenza e questa strana clausura.

EmozioniL’attuale emergenza legata al Coronavirus ci costringe ad una strana clausura, in contatto digitale con tutti, se vogliamo, ma distanti da tutte le nostre abitudini. Passato l’ineludibile  stupore iniziale siamo adesso immersi in un osservatorio unico e per certi versi privilegiato sulle nostre abitudini. Le cose importanti che quotidianamente diamo per scontate  adesso ci mancano e la loro assenza, sebbene possa provocar danni, potrebbe anche spingerci a riflettere con maggiore acutezza. La così tanto ovvia quotidianità, quasi mai oggetto di riflessione, adesso, da assente, esige di essere compresa.

Molti dei miei pazienti sono in questi giorni confusi ed hanno reazione emotive che non si aspettavano, nel bene e nel male. Anche io ovviamente sono a volte disorientato da ciò che accade fuori e dentro di me. Alcuni dei miei pazienti però stanno sperimentando difficoltà più severe poiché hanno perduto una quotidianità che li conteneva emotivamente; sono persone che hanno ancora bisogno di molto contenimento “esterno” per poter vivere, sopravvivere, godere, costruire la propria esistenza.

Vorrei portare due brevi esempi. Il primo, una madre ed un bimbo di 9 anni, che chiameremo Antonio, con Sindrome dello Spettro Autistico, con cui lavoro da circa due anni. Bambino ad alto funzionamento, ma con un tratto iperattivo e oppositivo-reattivo che gli fa assumere di fronte alle frustrazioni comportamenti problematici e crisi agitative. Senza entrare nei dettagli del progetto riabilitativo e terapeutico, che vede coinvolti sia il bambino sia la madre, sia la famiglia, sia la scuola, posso affermare che nell’ultimo anno abbiamo raggiunto buoni risultati anche sull’aspetto strettamente comportamentale, ed una delle cose cha ha funzionato è stato l’inserimento guidato in contesti relazionali adeguati, attraverso una madre che ogni volta si prepara meglio a gestire il proprio figlio: la scuola (con la quale si è lavorato bene per integrare e facilitare il bambino rispetto alle sue difficoltà), lo sport, il gruppo del catechismo, il centro di riabilitazione. Adesso però Antonio e la madre sono chiusi in casa, non c’è la scuola, non c’è lo sport, non c’è il catechismo, il centro di riabilitazione é chiuso. Antonio sta regredendo velocemente, ritornando alle stereotipie ed ai comportamenti agitati del passato, imbrigliato in tablet, computer e televisori; la madre mi chiama disperata, non sa come fare, aveva imparato molto dalla terapia ma adesso che stanno chiusi in casa per tutto il giorno, le sane routine sono saltate e lei è sommersa da ciò che non sa gestire, è senza strumenti, è sola e teme giustamente di perdere in poche settimane due anni di prezioso e faticoso lavoro. Perché non scherziamo su questo e non prendiamoci in giro, per una madre di un figlio nello Spettro Autistico fare la madre è più difficile che per altre madri, e stare chiusi in casa in questo periodo di emergenza è più problematico e più gravido di conseguenze che per altre persone. Antonio e la madre hanno perso una struttura esterna (la quotidianità fatta di giornate organizzate ad hoc in posti in cui stare, persone da incontrare e attività specifiche da svolgere) che é altamente necessaria per offrire contenimento emotivo e comportamentale per entrambi. É importante capire che per loro non sono “solo” sospesi temporaneamente gli obiettivi di riabilitazione e crescita, per loro é saltato proprio tutto!

Secondo esempio, un altro paziente, uomo di oltre cinquant’anni, con una relazione coniugale problematica, un figlio grande col quale purtroppo il rapporto non ha mai funzionato tanto bene,  patologie pregresse, un rene in meno  e chemioterapici in atto, gravemente immunodepresso.  Lui è una di quelle persone che NON DEVE ASSOLUTAMENTE PRENDERE IL VIRUS. Una persona che ha riversato nel lavoro e nei contatti sociali quotidiani che ruotano attorno alla giornata lavorativa in ufficio, tutta la sua essenza vitale e tutta la densità relazionale di cui è capace. Adesso anche lui è disorientato, più spaventato di me e di molti altri poiché rischia davvero la vita ed ha perso la sua quotidianità “fuori casa”, il miglior antidepressivo che lo potesse mai curare finora. Ora è chiuso in casa con la sua famiglia che non è per lui fonte di benessere quanto luogo emotivamente problematico in cui districarsi, piuttosto che immergersi. Si, per fortuna c’è il lavoro agile da casa col computer e c’é il telefonino con dentro Whatsapp, Facebook e via dicendo, quindi la socialità “esterna alla famiglia” sopravvive in qualche modo per lui. Ma oltre la porta chiusa della stanza in cui per molte ore si rifugia, ci sono moglie e figlio, e la pressante vita familiare che non può essere più elusa con la solita apnea del week-end. Ed inoltre si stanno presentando violente crisi d’ansia, perché proprio la  vita “social” del telefonino lo bombarda ogni giorno di stimoli allarmanti che non dovrebbe recepire, perché la paura  di fronte a tali stimoli sale troppo per chi è immunodepresso e seriamente vulnerabile a questo virus.

Che si fa adesso??? Bisogna urgentemente riorganizzare la quotidianità, adattarsi attivamente, creare nuove abitudini, gestire le emozioni che arrivano amplificate e le relazioni familiari che possono essere problematiche o comunque difficili. Le videochiamate ci stanno aiutando, riusciamo a lavorare, seppur a distanza e senza la relazione fisica, che in un intervento psicologico è culla e strumento di intervento. Ma possiamo fare cose buone e traghettarci in questa fase di emergenza fino alla ripresa della normalità, cercano di non perdere troppo terreno nel frattempo. Queste persone hanno bisogno di un aiuto per adattarsi ad una situazione che gli ha tolto la struttura esterna che li conteneva e li faceva “funzionare”: la quotidianità fatta di luoghi, di incontri, di attività, di distrazioni (più o meno sane) dalle relazioni familiari difficili.

E allora, da questo osservatorio unico e privilegiato della strana odierna clausura cosa possiamo guardare? Che ciascuno di noi si appoggia alla propria quotidianità per darsi struttura, per regolare le proprie emozioni ed i propri conflitti interni, le proprie difficoltà e per puntare su ciò che lo fa vibrare e lo fa funzionare al meglio. Ma la stessa quotidianità che ci mostra cosa normalmente desideriamo e perseguiamo ci indica anche, se vogliamo vederlo, ciò da cui fuggiamo, le relazioni umane ed i comportamenti per noi difficili e problematici, quelli che ci spaventano o infastidiscono. Perché la quotidianità non è fatta solo dei luoghi in cui andiamo e delle persone che frequentiamo ma anche dei luoghi, delle persone e delle azioni che stabilmente evitiamo. Adesso questo diaframma contro ciò che stabilmente evitiamo potrebbe essere saltato e la sentinella che ci avvisa di ciò  sono le reazioni emotive “fastidiose” che in questa strana clausura si possono presentare. L’intensità di questo “fastidio” è inversamente proporzionale alla nostra maturazione psicologica, che porta con se anche una certa autonomia (o meglio una sana ed elastica dipendenza) dai contesti esterni e la capacità avanzata di riorganizzarci velocemente quanto le condizioni cambiano. Per la madre di Antonio e per il nostro cinquantenne le reazioni emotive di questi giorni sono forti, intense, e rischiano di instaurare un corto circuito in se stessi e nella famiglia in cui abitano; da soli non le riescono a gestire e per fortuna possono contare su un aiuto esterno. Le persone che hanno  ancora bisogno di un contenimento  esterno soffrono di più adesso, quelle che stanno “psicologicamente più avanti” soffrono di meno e si riadattano più agilmente. La sentinella può avere facce diverse per ognuno di noi ma per ciascuno una domanda vale: cosa voglio farne adesso delle cose che stabilmente evito? Questa clausura mi può aiutare a vederle chiaramente? Voglio cambiare qualcosa o è meglio che le tenga solo a bada per traghettarmi sino alla fine dell’emergenza?

Sia per cambiare (almeno un po’) sia per gestire al meglio le cose per noi problematiche e resistere fino alla fine del tunnel, bisogna saper ascoltare le emozioni di paura o di rabbia, di sconcerto e di tristezza, allertate dalla perdita della quotidianità, dall’obbligo di confrontarsi con ciò che di solito si evita, e cercare di cogliere il messaggio, cercare di capire cosa di solito evitiamo e perché ci crea così tanti problemi.

E se vogliamo, se ci dedichiamo anche a ciò che viene da dentro, andrà tutto bene…

 

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Il cambiamento e le sue forme 

  Una persona può realmente cambiare? E può cambiare le condizioni attorno a sé, soprattutto quelle avverse? Molte persone che si rivolgono allo psicologo si pongono tale domanda. Capita in tutti gli ambiti applicativi della psicologia: nella clinica, nell’educazione, nello sport, in ambito giuridico, nella riabilitazione, nel contesto del lavoro e così via.

  Che si lavori su aspetti periferici della personalità, come l’acquisizione di nuove competenze, o che si tenti di cambiare aspetti strutturanti e di vecchia data di sé stessi, come atteggiamenti, modi di pensare e abitudini, che si lavori sulla singola persona, sulla coppia, sulla famiglia, sui gruppi o che si supervisioni un collega in difficoltà, la domanda resta e deve restare, perché è la domanda che alimenta la ricerca. Bisogna focalizzarlo bene: il rapporto che sappiamo intrattenere con la domanda e con la ricerca è ciò che predispone in realtà a trovare la risposta. Può sembrare un po’ sibillino, ma adesso sarò più chiaro.

Alcuni frammenti di vite vissute

Io posso cambiare? Ho trent’anni, ho quarant’anni… e non riesco ad allontanarmi da casa, io posso cambiare? Io invece non controllo la mia rabbia, appena ventenne ed ho già perso la fidanzata ed anche il lavoro per questo… io posso cambiare? Ed io, che non me ne accorgo nemmeno di quanto sono impulsiva, io posso cambiare? E quel cibo che non riesco nemmeno a guardare, può cambiare per me? Ed io pure, io che da poco sto capendo quanto di quello che accade a mio figlio dipenda dai miei cattivi atteggiamenti, io posso cambiare? e se cambio io, mio figlio starà meglio? E noi, noi che lavoriamo nella scuola, noi che lavoriamo nella terapia con bimbi piccoli, noi che affianchiamo i disabili, noi possiamo cambiare nonostante la scuola ed i centri sanitari restino gli stessi e ci impediscano di lavorare al meglio? i nostri assistiti staranno meglio anche se le loro famiglie non collaborano quanto dovrebbero? Ed io che abito da assente un corpo vuoto, io posso cominciare a sentire qualcosa? La gioia, forse? Ed io che ho raggiunto tutto eppure non trovo mai pace, io potrò acquietarmi un giorno?

L’importanza di tali domande

Solo il pronunciare queste domande mette angoscia, irrompe la paura ed un misto di irrequietezza e di senso di impossibilità. Il dubbio inoltre, se non sciolto, logora e può cedere il passo allo scoraggiamento. Certo la stessa domanda assume significati diversi a seconda della situazione e della storia della persona che vi ci piomba dentro, ed inoltre il carattere di ciascuno dà un taglio del tutto particolare alla questione. Ed anche io che aiuto ciascuno a “costruire” la sua risposta, certo non ritengo sia l’unica possibile al quesito ed alla sofferenza che dietro di esso si para. Ma nonostante tutti i “se” ed i “ma”, le persone si chiedono questo ed hanno profonda ragione di farlo. Nessuna domanda è inutile, non tutte le domande però sono ugualmente importanti, questa decisamente lo è. E non solo perché vi riponiamo dentro le nostre speranze, le nostre paure, i nostri dolori, le nostre energie emotive ed economiche. Certe domande solo per averle poste generano un orizzonte di senso nel quale poi bisogna imparare a muoversi.

Una riflessione, ben più che una risposta

Io ritengo che il cambiamento sia non solo possibile ma addirittura ineluttabile. Sempre. Ciò che varia è la natura di esso, la sua direzione e la sua quantità ma esso, il cambiamento, avverrà comunque. A volte non ce ne rendiamo conto ma in realtà nessuno può “non cambiare”, perché accade spontaneamente e necessariamente: la vita è movimento, dalla cellula alla famiglia, dal nucleo alla società, tutto è in perenne movimento, più veloce o più lento, ma comunque in movimento.

Se pure io riescissi a “non fare niente” la mia paura nell’allontanarmi da casa comunque muterebbe nel tempo: o andrà peggio o andrà meglio, o scomparirà o perdurerà, e qualora sembrasse inalterata, nella forma e nella quantità, il tempo che passa (e ferisce colui che soffre) cambierebbe di certo il quadro nel quale essa si raffiguerebbe. E quella rabbia incontrollabile aumenterà per forza, o in qualche modo si stempererà. Un genitore per forza influirà sul proprio figlio, così come un educatore sul suo assistito. Posso allora decidere di darmi degli obiettivi e  impegnarmi sodo per poi verificare il cambiamento avvenuto. Allora la domanda che mi viene posta acquista un significato sia esistenziale sia pragmatico ed insieme, il suo latore ed io, ci lavoriamo.

Se invece il significato che si dà alla domanda sottende una sfiducia ed un annichilamento, una tendenza all’immobilismo ed una difficoltà ad assumersi la responsabilità di ciò che accade, allora baderemo attenti all’evolversi di questa stessa sfiducia, che necessariamente faremo cambiare in una delle due direzioni possibili: trovare serenità nella corrente del fiume o far nascere in noi la fiducia nel cambiamento possibile.

Il tondo ed il quadrato

Logo SPR.001Chi nasce tondo non muore quadrato, si dice, ed è vero. Ma costruitemi un cerchio perfetto, di qualsiasi materiale, e prendete ad usarlo in qualsiasi modo vogliate: nel tempo, proprio perché usato, esso modificherà necessariamente la sua forma e dove non c’era nessun lato vedremo comparire degli allungamenti della curva che somigliano ad un lato. E se costruite un quadrato, seppur di granito, a furia di tirarlo, spingerlo e maneggiarlo, vedrete nel tempo gli angoli smussarsi e quei sicuri lati dritti e spianati incresparsi e cominciare ad onduleggiare incerti.

Il cerchio, dinamico ma instabile, appiattendosi in qualche parte troverà proprio in quegli appiattimenti punti di equilibrio e di resistenza rispetto alle forze che lo spingono e troverà quindi meritato riposo; il quadrato, prima stagliato ed immobile, essendosi mosso per forza, avendo strusciato e ruzzolato più volte nella vita sarà diventato meno resistente al movimento, ed i suoi lati ora increspati lo renderanno infine meno statico. Il cerchio guardandosi allo specchio non potrà che vedere un cerchio, certo, ma diverso, cambiato. Ed il quadrato non vedrà certo una ruota, ma nemmeno più quegli angoli appuntiti e taglienti.

I sintomi, i problemi, sono il segnale che qualcosa in noi non funziona come dovrebbe e non riusciamo quindi a risolvere le situazioni conflittuali o annichilenti nelle quali ci imbattiamo. Sono il segnale che qualcosa va cambiato. Talvolta un aiuto specifico, veloce e mirato ci permette di sciogliere il nodo nel quale eravamo incappati. Altre volte invece bisogna rinforzare l’intera nostra persona, con un lavoro più lungo. In entrambi i casi comunque solo modificare sé stessi, nella direzione e nel modo giusto, offre la possibilità di risolvere i problemi e superare quindi i sintomi. Il cambiamento quindi comincia sempre da se stessi.

Cambiamento e trasformazioneNon possiamo quindi non cambiare, dicevo, la vita ci cambia comunque. Noi possiamo però decidere quale ruolo darci, tronco alla deriva o ammiraglia in cerca di nuove frontiere. Se impariamo quindi a modificare il nostro modo di essere e di fare diveniamo noi stessi di fatto “diversi”, cambiamo nella direzione desiderata, acquisendo nuove abilità e imparando a fare scelte diverse. Cambia il modo di sentire, di pensare, di stare in relazione, si evolvono i bisogni, si acuiscono le capacità. Da scelte differenti, poi, supportati da nuove abilità, discendono situazioni esterne ed interne diverse, e se la direzione è quella giusta, migliora la nostra condizione. Cambiando noi, in sostanza, dopo poco cambierà anche il mondo esterno, o almeno parte di quello con cui intratteniamo relazioni, proprio perché iniziamo a comportarci in maniera differente. Partiti allora da una domanda, espressione dei dubbi circa i cambiamenti possibili, scoraggiati magari dalle avversità, ci ritroviamo infine a saltare in un mondo diverso, migliore, più adatto ai nostri bisogni e ai nostri modi di essere.

Si cambia sempre quindi, e si impara a cambiare. Mi sembra questo un buon modo di rispondere alla domanda.